Beni archeologici e presunzione di appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato.

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La Suprema Corte ha stabilito che i beni archeologici presenti in Italia si presumono, salva prova contraria gravante sul privato che ne rivendichi la proprietà, provenienti dal sottosuolo o dai fondali marini italiani ed appartengono, pertanto, al patrimonio indisponibile dello Stato.

È la sentenza n. 10303 del 26 aprile 2017 della Secomda Sezione Civile (clicca qui per la MOTIVAZIONE sul sito della Corte).

La legislazione di tutela dei beni archeologici è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell’importanza che essi rivestono anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico-artistico garantita dall’art. 9 Cost., dell’appartenenza allo Stato dei beni rinvenuti. La Corte (Cass., Sez. I, 10 febbraio 2006, n. 2995) ha già statuito che, nelle azioni giudiziali di revindica, lo Stato può avvalersi di una presunzione di proprietà statale dei beni archeologici: presunzione determinata, oltre che da un id quod plerumque accidit di fatto, anche da una normalità normativa.  Su questa base, correttamente la Corte d’appello ha statuito che, attesa la natura e le caratteristiche degli oggetti in questione, spettava al privato attore in rivendicazione la prova di fatti che potessero escludere, fin dall’inizio, la riconducibilità di tali beni al patrimonio in- disponibile dello Stato, e quindi la circostanza che essi fossero stati ritrovati in aree non appartenenti allo Stato italiano. Infatti, poiché l’art. 91 del codice dei beni culturali, approvato con il d.lgs. n. 42 del 2004, prevede che le cose indicate nell’art. 10 dello stesso codice, ossia i beni archeologici, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato, se ne deve trarre che la presenza in Italia di un bene archeologico costituisce prova logica della provenienza dal sottosuolo o dai fondali marini italiani; salva, naturalmente, la prova contraria, di cui è onerato il privato che intenda far valere il contrario. 

Nel caso di specie il ricorrente sosteneva che nel corso del giudizio non sono stati provati né la provenienza dei beni da aree site nel territorio italiano, né il carattere archeologico dei beni: da ciò discenderebbe non solo l’inapplicabilità dell’art. 91, primo comma, del d.lgs. n. 42 del 2004, ma anche l’inoperatività della presunzione relativa di appartenenza di questi ultimi allo Stato, con la conseguenza che non gravava in capo all’attore privato cittadino l’onere di fornire la  prova dei fatti escludenti il diritto di proprietà dei reperti in capo allo Stato. Ad avviso del ricorrente, gravava sull’Amministrazione l’onere di provare la sussistenza dei presupposti applicativi della norma, onere non assolto dall’Amministrazione in relazione a nessuno dei due presupposti. Anche a ritenere che si rientri nel campo della presunzione legale, questa sarebbe stata superata dal ricorrente con la di- mostrazione di un titolo di proprietà a titolo originario, rappresentato dalla usucapione dei reperti per possesso per oltre cinquant’anni. La Corte ha ritenuto il motivo infondato. Il ritrovamento o la scoperta dei beni in questione in data anteriore all’entrata in vigore della legge 20 giugno 1909, n. 364, sulla inalienabilità delle antichità e delle belle arti, costituente ipotesi di legittimo possesso da parte dei privati, doveva essere provato, in quanto circostanza eccezionale, dall’attore; e tale dimostrazione, secondo il motivato apprezzamento del giudice del merito, non è stata data. Né rileva la circostanza che gli oggetti in questione si trovassero nell’abitazione dell’attore da oltre cinquant’anni. Infatti, l’appartenenza dei beni al patrimonio indisponibile dello Stato si estrinseca nell’impossibilità di sottrarli all’uso e alla pubblica funzione cui sono destinati e ciò impedisce la maturazione di un possesso utile ad usucapionem. 

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